IL MARKETING VITTIMARIO INVISIBILIZZA LE VITTIME
IL MARKETING VITTIMARIO CHE INVISIBILIZZA LE VITTIME
A cadenza regolare le top influencer di Instagram si lamentano dei commenti poco rispettosi sul loro corpo scritti dai followers sotto le proprie foto. Questa volta è il turno di Valentina Ferragni, sorella della più famosa Chiara.
Come la sorella, Valentina da un po’ ha iniziato a sponsorizzare intimo sul proprio profilo, ricevendo (come la sorella) elogi generalizzati dai propri seguaci.
Tuttavia avendo 4,5 milioni di followers e una media di un migliaio di commenti a post, è fisiologico che fra questi ci sia chi per un motivo o per l’altro critica i suoi contenuti… ed è qui che si apre la questione interessante:
Valentina sfrutta un commento (ribadiamo, 1!) non elogiativo sul suo fisico per gridare di essere vittima di body shaming, subito ripresa dai maggiori quotidiani online.
La definizione di body shaming, ossia “l’atto di deridere e/o discriminare una persona per il suo aspetto fisico” del resto è talmente vaga che effettivamente un singolo commento negativo fra migliaia di elogi può essere definito body shaming, se il soggetto del commento lo autopercepisce come tale.
Perché la questione centrale di tutto è appunto questa: se il soggetto si percepisce come deriso o discriminato e non se il soggetto è oggettivamente deriso e discriminato.
E’ proprio la questione dell’autopercezione di essere vittima l’argomento con cui le influencer giustificano il loro proporsi pubblicamente come vittima. Poco importa se hanno contratti da centinaia di migliaia di euro con i brand e vengono generalmente considerate icone di bellezza, se si autopercepiscono discriminate sono a pieno titolo vittima di body shaming.
Diventa quindi secondario (per non dire sconveniente) a livello argomentativo rimarcare che assumere la postura vittimaria produce degli effetti positivi per la carriera dell’influencer e per la reputazione del brand:
1- Aumenta l’engagment in termini di commenti e condivisioni da parte dei followers che si schierano a difesa della vittima.
2- Il brand pubblicizzato assume (volente o nolente) l’aura di brand attento ai corpi non conformi, all’emancipazione femminile e al rispetto della donna.
3- Permette all’influencer e al brand di accedere a canali ulteriori di visibilità come le pagine online dei quotidiani e i profili delle militanti specializzate nella promozione dell’empowerment femminile.
In tutta questa dinamica virtuosa fra celebrity vittima e brand che vede aumentare la propria visibilità e reputazione, tuttavia qualcosa manca:
le vittime non famose di body shaming non vengono mai nominate nel discorso.
Le ragazze in carne emarginate a scuola, le disabili, i corpi e i volti realmente non conformi generalmente considerati “brutti” che vengono scartati nei colloqui di lavoro e come partner sessuali, ecc rimangono invisibili, sovrastati dalla lamentela vittimaria di top influencer che divorano tutto lo spazio pubblico possibile per parlare del proprio disagio.
A questo punto vale la pena chiedersi se l’aver delegato una tematica molto seria come il body shaming a top influencer come le sorelle Ferragni sia più un male che un bene, dato che loro la usano come usano qualsiasi altra cosa: come un modo per aumentare visibilità e fatturato.
Federico Leo Renzi