Ivo Serafino Fenu: L’irraggiungibile necessità dell’utopia
Ivo Serafino Fenu: L’irraggiungibile necessità dell’utopia.

Ivo, ragioniamo un poco su “L’Utopia negata”, trovo molto interessante il taglio curatoriale che dichiara l’impossibilità di raggiungere l’utopia da parte degli artisti della collezione Antonio Manca, artisti significativi di certe traiettorie di ricerca del secolo passato.
E’ la frontiera anche di questo nuovo millennio quella dell’impossibilità di determinare e rappresentare utopia?
Il taglio curatoriale dato alla mostra L’Utopia negata andrebbe inquadrato, nel più generale tema che ha caratterizzato la XVII edizione del Dromos Festival:
I HAVE A DREAM, L’UTOPIA NECESSARIA.
In esso si cercava di fotografare da un lato una generale condizione contemporanea di crisi, dall’altro la prospettiva di cambiamenti profondi, verso orizzonti apparentemente utopici ma che, proprio perché venati di utopie, spingono ad avanzare e a cambiare. Emblematico, in tal senso, è il celebre discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto del 1963.
Esprimeva il sogno che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi ma, al contempo, che “uno dei più angosciosi problemi della nostra umana esperienza è che pochi, se non nessuno di noi, nel corso della propria vita riescono a veder realizzate le proprie più vive speranze”.
Una conferma, insomma, della celebre definizione dell’utopia data da Eduarda Galeano e che ha supportato a livello teorico tutte le scelte del festival:
“L’utopia si trova all’orizzonte.
Quando mi avvicino di due passi, arretra di due passi.
Se avanzi di dieci passi, rapida scivola dieci passi avanti.
Per quanto innanzi io mi spinga non potrò mai raggiungerla.
Che scopo ha dunque l’utopia?
Quella di indurci ad avanzare.”
L’impossibilità di raggiungere l’utopia non è peculiare dell’artista contemporaneo, bensì generale:
Una visione sostanzialmente positiva seppure, a guardar bene, ossimorica; utopia come prospettiva, utopia che anticipa e pone le basi del cambiamento e, tuttavia, in quanto tale, irraggiungibile.
Orizzonti venati da utopie che, apparentemente irraggiungibili, ci spingono ad avanzare, seppure si tratti di un avanzare lento, faticoso, con cadute e, talvolta, scoraggianti impasse.
In quanti hanno rincorso e percorso le strade polverose dell’utopia, vi era la consapevolezza dell’enorme quantità di sacrifici che costellano tale percorso e, nonostante tutto, la certezza che un giorno, più o meno lontano, tutto sarebbe potuto cambiare, perché, per dirla con le parole di Oscar Wilde, “una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo”: una visione “utopica” dell’utopia e, pertanto, “necessaria”.

L’utopia è anche tensione critica e monitoraggio del presente, ma più che un valore aggiunto di progressione sociale e culturale sembra essere un detonatore di autodistruzione per gli stessi artisti che la inseguono, producono e alimentano. Esagero?
No, non esageri, è proprio questo il senso della mostra e la relativa scelta delle opere dalla collezione di Antonio Manca: l’arte, nel suo farsi specchio di una realtà cupa e asfittica, nella quale la stessa parola “prospettiva” appare quantomeno velleitaria.
Pare muoversi in un’altra direzione e l’utopia, ancorché necessaria, viene svuotata di tutte le sue potenzialità propulsive e di cambiamento: è l’utopia negata.
Il luogo dell’utopia, riletta coi codici dell’estetica contemporanea, lascia dietro di sé un’ombra, una sagoma meno luminosa in cui si “ritrae” (nella duplice accezione di celarsi e di palesarsi).
Un “non luogo”, per desideri inevasi, per aspirazioni difficilmente raggiungibili, per icone infrante: un non luogo abitato da un angelo ferito al quale pesa il fardello delle proprie ali, custode di un sogno destinato, inevitabilmente, a trasformarsi in incubo.
Emlematica, in tal senso, andrebbe letta l’opera Dream House dell’americano Gregory Crewdson che, seppur datata 2002, non ha perso di certo il suo potere visionario e il suo carattere perturbante: è il lato oscuro del “sogno americano”, una sequenza fotografica in bilico tra Hopper e David Lynch, carica di mistero e inquietudine, una dimensione onirica in una casa abitata da “assenze”.
Sulla stessa onda anche l’opera Desire Alive: American Dream (2008) dell’indonesiano Entang Wiharso nella quale l’utopia delle “magnifiche sorti e progressive” proposta dagli Stati Uniti ben presto si trasforma in un violento processo di colonizzazione culturale, politico ed economico; un processo di globalizzazione che soffoca le identità locali, rievocando figure mitologiche della tradizione giavanese in un contesto caoticamente contemporaneo.
O, infine, l’ucraino Serghey Bratkov, la cui violenta critica all’oramai scomparso impero sovietico e alle sue “utopie negate” non gli impedisce di analizzare in modo ugualmente critico le aberrazioni dell’imperante sistema capitalistico con la mercificazione dei corpi e delle cose:
Una critica sociale senza appello, fastidiosa per i nuovi poteri che hanno cerato di imbavagliarne il messaggio attraverso l’infamante quanto inventata accusa di pedofilia.
Ho citato tre artisti molto diversi tra loro, ma tale negazione dell’utopia come motore di cambiamento è presente anche nelle opere dei giapponesi Nobuyoshi Araki, Tatsuo Miyajima e Hiroshi Sugimoto, dei nostri Paolo Bianchi, ConiglioViola, Alberto di Fabio, Nino Mustica, Flavio e Sebastian Piras, Mario Schifano e Roberto Pugliese, dello statunitense David LaChapelle, della russa Elena Nemkova, del fiammingo Panamarenko, dell’iraniano Arash Radpour e del filippino Ronald Ventura.
Verrebbe da dire un “negativismo globale” che accomuna lo sguardo critico e obliquo del contemporaneo, che a me piace indagare, e il gusto raffinato di un collezionista qual è Antonio Manca, con la sua propensione multietnica e internazionale, fortemente improntata al sociale ma sensibile alle più innovative esperienze estetiche attuali.

La Pinacoteca Contini, sta diventando sempre più un riferimento culturale significativo nell’isola per trasmettere, anche in chiave didattica, i processi del fare arte contemporanea, come reagisce la comunità ad una tale programmazione non sempre convenzionale e tradizionale?
La domanda è d’obbligo viste le forti resistenze di “genere” nell’isola …
La Pinacoteca Contini è, giusto per restare in tema, anch’essa un’utopia necessaria.
Vive, rispetto ad altre istituzioni artistiche, con fondi risibili e, tuttavia, importanti per il Comune di Oristano, ha spazi limitati che condizionano non poco gli allestimenti, costringendomi, spesso a veri e propri salti mortali o a contaminazioni quantomeno “azzardate” tra collezione permanente e mostre temporanee.
E, nonostante ciò, tali limiti, per alcuni versi penalizzanti, mi costringono a sondare temi e soluzioni espositive stimolanti, alternative rispetto a quanto potrebbe realizzarsi con spazi più ampi e, soprattutto, fondi più cospicui.
Non ho la presunzione di dire che la Pinacoteca stia diventando un riferimento culturale per l’Isola ma posso constatare che i visitatori crescono di mostra in mostra così come cresce l’attenzione dei media. Cerco peraltro di variare quanto più possibile la programmazione facendo interagire giovani e meno giovani artisti sardi con artisti della Penisola e internazionali, cerco di collaborare quanto più possibile con altre istituzioni o altre realtà artistiche nell’ottica di un arricchimento reciproco, amo il contemporaneo più trasgressivo ma non dimentico i maestri dell’arte sarda del Novecento, consapevole che, in ciascuno, possano esserci elementi di attualità e problematicità non ancora risolte.
Infine, due parole sulla chiave didattica che tu hai individuato: potrebbe essere una deformazione professionale, sono in primo luogo un insegnante di Storia dell’Arte e non me ne dimentico.
Son convinto che per l’arte, non solo quella contemporanea, vadano offerti basilari strumenti di lettura, soprattutto in una città, ma si potrebbe dire in un’Isola, dove le “resistenze” non mancano, tutto ciò senza condizionare o limitare quel rapporto fondamentale e unico che dovrebbe stabilirsi tra opera e spettatore.
So bene che questo approccio didattico è abborrito da molti mie colleghi che lo considerano provinciale e mortificante: ma se l’arte diviene uno strumento per soddisfare le masturbazioni intellettuali e narcisistiche di qualche “critico”, credo che qualcuno abbia fallito, e non penso che il fallimento risieda nel prodotto artistico.
