Sciascia, Klinger, Freud e Platone. Il tema del doppio e del multiplo in Una storia semplice

di Cinzia Cogoni, con un intervento di Caterina Ghisu

Prologo

È il 1989 quando Leonardo Sciascia muore ed è appena stato stampato per Adelphi il suo ultimo romanzo, Una storia semplice. Per Sciascia non è una novità narrare di mafie e di delitti o come diceva lui stesso per spiegare da dove provenisse la sua disposizione, che definiva un piacevole cedimento verso una materia saggistica che assume i modi del racconto.
Quando esce Una storia semplice , Sciascia è uno scrittore già famoso ma schivo e sono passati circa trent’anni dalla pubblicazione de Il giorno della civetta, innegabile capolavoro della nostra letteratura e allo stesso tempo opera che inaugura quel genere che la critica ha definito letteratura di intervento. Sciascia si dimostra subito come un vero illuminista post litteram, un Diderot della narrazione, uno che crede fermamente nel valore assoluto della ragione, nella possibilità offerta al genere umano, di risolvere i problemi della società proprio attraverso l’uso della ragione. Purtroppo però, gli attori di questa disputatio narrativa ma alla fine anche reale, sono i principali protagonisti di due autorità completamente diverse: lo Stato e i suoi servitori da una parte, e la criminalità coi suoi fiancheggiatori spesso impauriti, dall’altra, tanto che la tensione dolorosa tra questi due estremi lo obbliga all’unica soluzione possibile ovvero credere nella ragione, consapevole che alla fine dei conti, giustizia e ragione saranno sconfitte.
Ma al contrario di tanti che hanno ceduto alla nota di colore o ai sentimentalismi legati al luogo natio, Sciascia ha trovato, da un lato, una speranza nei poteri della ragione e nelle conquiste liberatrici della storia e dall’altro un’innegabile constatazione delle colpe della classe dirigente che hanno caratterizzato il Meridione o comunque tutta quella classe politica che con esso ha avuto a che fare e che ha portato spesso a conseguenze misere e dolorose. Perciò, quello che leggiamo quasi sempre, è un Sciascia che poco ha a che vedere con certo pietismo neorealistico anche perché di fatto, all’epoca delle riflessioni dell’autore, il Neorealismo era già in declino, questione che però non ha gli impedito di far propria quella lezione e di porre una costante attenzione verso un’autentica verità che nel corso della sua vita lo ha visto diviso tra la passione per la letteratura e quella per la politica.
Ed è grazie a questo suo essere poliedrico unito all’amore per la Sicilia che Sciascia pone al centro dei suoi interessi quegli intrecci indistricabili e conniventi tra uomini di potere e uomini del delinquere, tra faccende di stato e faccende di mafia o di terrorismo, caratterizzando le sue opere con una cifra dominante: l’impegno civile.
In ultimo non è da dimenticare, nell’ambito della narrativa contemporanea, che Sciascia si è distinto per la fedeltà alla tematica delle sue opere che hanno parlato spessissimo di Sicilia, nella storia e nei problemi della sua terra, convinto che la “sicilianità” non solo fosse un topos ma una particolare identità della storia siciliana.

Piccola analisi narratologica
Allora, a questo punto ritorniamo ad Una storia semplice che poi tanto semplice non è.

Siamo in un ipotetico paese siciliano ed è sera tarda di un mese di marzo, come ci suggerisce l’incipit in media res, in un tempo che come si vedrà si espande e si riduce con la stessa rapidità. Un tale Giorgio Roccella, un diplomatico in pensione, telefona al commissariato e chiede del questore. Roccella dice di dover urgentemente mostrare una cosa che ha trovato.
Ma solo l’indomani il brigadiere, secondo il sistema dei personaggi l’eroe protagonista, e due agenti, i suoi aiutanti, andranno in pattuglia nel luogo indicato più con l’intento di fare cicoria che di lavorare, mentre il commissario che se la prende comoda, fa da contraltare al solerte brigadiere ed immediatamente si presenta come uno svogliato rappresentante delle istituzioni il cui impegno etico e morale risulterà assai discutibile.
Ma è solo dopo poche pagine che Sciascia introduce il tema centrale del romanzo: la giustizia. La giustizia nelle sue contraddizioni. La giustizia che spesso scoraggia i cittadini rendendoli sfiduciati e distanti dalle istituzioni, talvolta anche per comodo e leggerezza.
Quindi, entrati all’interno del villino, prosegue la narrazione, gli agenti trovano il cadavere riverso sulla scrivania. Si tratta proprio di Giorgio Roccella. L’uomo ha un foro tra tempia e mandibola e dopo un sommario rilevamento di impronte e foto di rito, si liquida il caso come suicidio. Ma di suicidio proprio non si tratta e da questo momento i fatti, procedendo secondo la tecnica dell’analessi, si susseguono a ritmo incalzante, un ritmo ottenuto grazie all’uso frequente dei segni di punteggiatura e dall’inserimento di un altro personaggio, un tale professor Franzò. Questa narrazione pur non priva di incursioni dialettali, nell’economia generale risulta asciutta, sobria, ironica e che conduce al costante contrasto tra delusione e impegno. A questo punto il professor Franzò, vecchio amico della vittima, riferisce di aver sentito il Roccella al telefono il quale gli racconta di aver trovato un famoso quadro, proprio quello famoso, scomparso qualche anno prima. Fin qui è ciò che ci racconta il narratore, un narratore esterno alla vicenda e che non ne sa molto di più dei personaggi. E così dev’essere se si vuole creare quella suspence del romanzo poliziesco e pure giallo, dato che il cadavere appare all’inizio della vicenda come da tradizione e il colpevole non verrà esplicitamente individuato.
Poco tempo dopo a Monterosso, in una località nelle vicinanze, a causa di un guasto al semaforo ferroviario, un uomo a bordo di una Volvo decide di andare ad avvisare il capostazione, il quale, in compagnia di altri due uomini, è però intento ad arrotolare un tappeto. Ma si tratta proprio di un tappeto o di una tela al rovescio? E il commissario e il questore sono totalmente estranei ai fatti o hanno qualche interesse? E il colpevole dell’assassinio del Roccella rimarrà impunito o il lettore lo scoprirà solo alla fine del romanzo quando si risolverà il caso e si dichiarerà l’oggetto narratologico del desiderio?

Le fil rouge
E allora se si sciogliesse appena un po’ il filo della matassa e si partisse dalla fine, si giungerebbe a quell’occasione che ha ispirato Sciascia e gli ha fatto scrivere questo breve ma intenso racconto e allo stesso tempo denunciare velatamente un caso di connivenza all’interno di uno dei più clamorosi furti della Storia dell’arte.
È il 1969 quando dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo viene trafugata la Natività coi santi Lorenzo e Francesco d’Assisi del Caravaggio. Le cronache e gli addetti ai lavori lo definiscono il furto del secolo e posto che non lo sia, si tratta sicuramente di uno fra i dieci più clamorosi furti di opere d’arte accaduti negli ultimi cinquant’anni.
Da allora non se ne sa più nulla, o meglio, si sa che nel corso degli anni che verranno, passerà di mano in mano. Ma non di mani comuni, bensì di mani eccellenti, mani del calibro di Gaetano Badalamenti o di Gaetano Grado, un pentito di mafia o ancora di un altro collaboratore di giustizia, tale Francesco Marino Mannoia il quale “riferirà “ al magistrato Giovanni Falcone di essere lui l’autore del furto e di aver trafugato la tela arrotolandola in un tappeto effettivamente sottratto all’Oratorio. Operazione, quella dell’arrotolare un tela del ‘600 come un tappeto, che si rivelerà assolutamente devastante poiché danneggerà irrimediabilmente l’opera, sempre che ancora oggi ne sia rimasta qualcosa.
Ma continuiamo a tornare indietro anche se all’epoca delle rivelazioni dei mafiosi siamo già abbastanza avanti negli anni.
L’opera è conservata in quel luogo sacro da oltre tre secoli e da lì non si è mai mossa. Questo furto non è roba da mariuoli. Solo dei professionisti hanno potuto fare un lavoro del genere e successivamente negoziarne la restituzione: non può che trattarsi della Mafia. Da allora non se ne sa più nulla. O meglio si sanno parecchie cose che non sono più suffragate né da testimonianze né da prove. Ma effettivamente di quale opera si tratta?

In Una storia semplice, Leonardo Sciascia fa riferimento a due opere d’arte: una tela di Caravaggio, la Natività coi santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, trafugata nell’ottobre 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, e la serie di incisioni ad acquaforte Ein Handschuh (Un guanto) di Max Klinger. Klinger la pubblicò in prima edizione nel 1881 per i tipi di Friedrich Felsing a Monaco di Baviera.
La prima tela non viene mai nominata – la Mafia non esiste, affermò nel 1988, durante un convegno, un Presidente della Prima Sezione della Corte di Cassazione – e quindi, come ogni cosa che riguarda Cosa Nostra, non si può raccontare oggettivamente, con nomi, fatti e circostanze esplicite. Sciascia non parla di una cosa che però tutti sanno, pertanto, proprio per la scelta di non nominare mai la Natività di Caravaggio, ci suggerisce sia l’incontrovertibile valore del dipinto, e non solo economico, sia l’assoluta gravità del furto, con l’effetto di amplificarle entrambe.
La storiografia dell’arte ancora dibatte sull’esecuzione del dipinto a Palermo, e di conseguenza sulla sua data di realizzazione. Il recente studio di Michele Cuppone ipotizza, con dovizia di documenti, che il dipinto non fu realizzato a Palermo nel 1609, come si era sempre creduto, ma a Roma nel 1600, commissionato dal commerciante Fabio Nuti e da qui spedito a Palermo, dove aveva rapporti con l’Oratorio di San Lorenzo. La tela, sempre secondo Cuppone, venne realizzata all’interno di Palazzo Madama, attuale sede del Senato della Repubblica, allora residenza di Caravaggio. Se la nuova datazione fosse esatta, la Natività, corrispondente al quadro cum figuris menzionato in un documento romano del 5 aprile 1600, sarebbe la prima commissione per una pala d’altare, prima ancora, o contemporanea delle storie di san Matteo nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, confermando la vicinanza del Merisi agli ambienti oratoriani, ribadita a più riprese da Maurizio Calvesi.

La serie Un Guanto di Max Klinger compare in un passaggio di Una storia semplice che costituisce il punto di svolta delle indagini, anzi è proprio Un guanto di Klinger la chiave che ne sblocca l’impasse.
Il racconto è impostato sul contrasto tra vero e verosimile, si basa sulla doppiezza, sulla convivenza degli opposti, ha una struttura gianica: la storia semplice del titolo nella realtà è complicata (ma nella risoluzione finale ridiventa apparentemente semplice nella sua versione ufficiale); versione ufficiale ritoccata versus realtà accaduta; garanti della giustizia che sono malavitosi; riferimento alle lettere di Pirandello, che ci riportano al suo sentimento del contrario; il dipinto trafugato di Caravaggio che viene scambiato per un tappeto. René Magritte sarebbe stato orgoglioso di Leonardo Sciascia, ma non solo per questa variazione della percezione. Preludio al punto di svolta è il passaggio in cui lo scrittore siciliano parla di un fenomeno di sdoppiamento, il poliziotto che dà la caccia a se stesso. E qui cita il nome di Pirandello. Con una magistrale padronanza del climax, compie il passaggio da un colpo di scena ad un altro, via via più intensi, grazie all’intuizione del ruolo di un guanto nella storia e nella scoperta dell’assassino. L’interruttore. Il guanto. Il brigadiere nulla sapeva, né l’avrebbe apprezzata, di una famosa serie di incisioni, di Max Klinger, appunto intitolata Un guanto, ma nella sua mente il guanto del commissario trascorreva, trasvolava, si impennava come allora nella fantasia di Max Klinger. Qui entra in ballo la serie di Klinger, ambientata in una pista di pattinaggio a Berlino, in cui vari personaggi si muovono con spensieratezza e disinvoltura da Belle Époque . Una donna che vediamo di schiena, mentre volteggia sui pattini perde un guanto. È una brasiliana di notevole bellezza, per la quale mezza Berlino e lo stesso Max Klinger, all’epoca ventiquattrenne, ha perso la testa. Egli infatti si autoritrae mentre raccoglie il guanto perduto (immagine a destra).
Tornato a casa, con il guanto ai piedi del letto, Klinger piange disperato mentre la sua stanza non ha più pareti, ma alberi (sul serio, come nella canzone di Gino Paoli) anzi uno, fiorito. In questa incisione lo sdoppiamento provocato dall’amore è evidente: gioia e dolore hanno il confine incerto. Il quarto episodio è scollegato dalla realtà e proiettato nell’immaginazione: Klinger immagina il guanto in mezzo a un mare in tempesta, e l’impresa del salvataggio da parte dell’artista di quella propaggine della donna amata. Anche in questa scena c’è la contraddizione tra il mancato coraggio nella realtà (di fermare la bella pattinatrice) e la facilità con cui si sogna di essere migliori (l’eroe che sfida i flutti su una barchetta) (tavola 4). Il guanto salvato, inserito in una carrozza a forma di conchiglia, viene portato in trionfo su un cocchio trainato da due cavalli bianchi (tavola 5). Nella tavola successiva (tav.6) il mare, placatosi, omaggia il guanto ricoprendosi miracolosamente di rose. Ma il Romanticismo non sarebbe degno di tale nome senza un pizzico di sublime: sempre nell’immaginario, un mare burrascoso irrompe nella stanza da letto, metafora dei suoi incubi e turbamenti; il guanto si trasforma in un enorme mostro minaccioso – i Surrealisti ringraziano (tav.7). Dall’inquietudine si passa alla metafisica: una stanza con un tendaggio composto da tanti guanti appesi in verticale, ospita al centro un tavolino con adagiato il guanto della pattinatrice, la scena sembra suggerire quiete, non fosse per un lucertolone pterodattilo che spunta da dietro le tende (tav. 8). Il mostro porta via il guanto con il suo becco, vola fuori dalla finestra della stanza da cui si protendono le mani del povero amante (tav. 9). Infine, nell’ultima incisione (tav. 10) Si vede il guanto poggiato, mentre un piccolo Eros, senza indossare la faretra, guarda in un’altra direzione, come per cercare la prossima vittima.
Tra i più entusiasti ammiratori della serie dedicata al guanto, vi fu uno dei più grandi artisti italiani del primo Novecento, Giorgio De Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978), che le riservò parole d’elogio in uno scritto intitolato Max Klinger, composto nel 1920.

Freud e Platone

L’opera di Max Klinger citata da Sciascia nel romanzo Una storia semplice, trova nel guanto l’oggetto del desiderio/feticcio, e le diverse incisioni che sintetizzano la pirandelliana molteplicità delle apparenze, sottolineano ancora una volta che tutto il racconto si caratterizza per il costante tema gianico, di un doppio che diventa o forse era già storicamente un multiplo. In questo contesto spicca l’incisione n. 5 del Trionfo, dove si descrive una carrozza a forma di conchiglia trainata da un giogo di cavalli e dove è possibile cogliere una molteplicità di riferimenti culturali.
Klinger era un visionario e la critica lo colse immediatamente già all’epoca in cui viveva e lavorava. A questo proposito scriveva così De Chirico:
Quando si guarda l’opera di Max Klinger, specie nelle sue acqueforti si è subito colpiti dal modo bizzarro e fantastico con cui egli rappresenta il mito greco. Quello spirito che contengono le numerose composizioni che egli ha inciso sorprende per il fatto che prima d’averlo veduto non se ne sospettava l’esistenza nell’opera dell’arte greca, mentre dopo se ne trova in questa l’origine. Ciò dimostra la genialità dell’opera klingeriana che, per quanto altamente fantastica o ricca d’immagini le quali, a prima fronte, ed a persone poco scaltrite nelle sottigliezze metafisiche, possono sembrare paradossali ed insensate, si basa invece sempre sul fondamento d’una chiara realtà, potentemente sentita, e non erra mai in delirii e vaneggiamenti oscuri. […] Simile a tutti i pittori dotati di mente profonda e chiaroveggente, Klinger nella sua pittura non altro ha cercato che esprimere con la maggior chiarezza, solidità e perfezione le visioni, i sentimenti e i pensieri che lo turbavano.”

Max Klinger, Ein Handschuh, Tavola 5: Triumph (“Trionfo”) (1881; acquaforte, 159 x 327 mm)

Quella che Klinger visse fu un’epoca di grandi trasformazioni economiche e sociali, un’epoca dove l’innovazione tecnologica corse ad una incredibile velocità, apportando enormi trasformazioni che interessarono in modo diverso luoghi e persone che appartenevano a classi sociali differenti. Ed è dunque in questo clima che l’artista e la sua opera si inseriscono in modo modernissimo, anticipando di almeno due decenni quelle importanti riflessioni circa le sublimazioni erotiche e più in generale la psicoanalisi come hanno sottolineato gli storici dell’arte J.K.T. Varnedoe e E. Streicher nei loro studi sull’artista.
Allora, ricostruendo la vicenda critica e artistica dell’autore di Un guanto, Klinger pubblica la serie delle incisioni nel 1881 mentre per convenzione con il Sogno dell’iniezione di Irma del 1895 nasce la psicoanalisi di Sigmund Freud, sogno che verrà poi pubblicato nuovamente nel L’interpretazione dei sogni del 1899. Quindi Klinger batte Freud 1-0. Però l’opera di Klinger risulta praticamente speculare al mito della Biga alata, peraltro presa in prestito anche da Freud. Perciò anche Freud risulta debitore del Fedro di Platone dove, parlando dell’anima, utilizza una biga guidata da una auriga per spiegare il rapporto tra l’uomo e il mondo delle idee.
E fino a qui si tratterebbe di una semplice triangolazione letterario-artistico-filosofica. Ma facciamo ancora un passo indietro ricordandoci cosa racconta il Fedro.
L’opera, scritta probabilmente nel 370 a.C., altro non è che un dialogo tra il maestro Socrate e il giovane allievo Fedro. Durante il dialogo il maestro utilizza la metafora della biga alata, per rappresentare il viaggio dell’anima e per spiegare al giovane Fedro da dove arrivino quelle conoscenze in noi che ci sembrano lì da sempre.
Ma qual è il simbolismo del mito? La biga rappresenta l’anima, e questa è guidata nel suo viaggio da due cavalli, uno bianco ed uno nero. Il primo rappresenta l’elevazione al mondo delle idee, quindi la componente più razionale dell’anima, quella alla ricerca della raffinatezza e del bello. Mentre, il cavallo nero rappresenta la parte più istintuale dell’anima, quella più irrazionale, impulsiva e carnale. Sarà perciò il cavallo nero quello che tenderà a portare più velocemente la biga verso il basso, cioè verso il mondo dei sensi. Mentre quello bianco tenderà verso l’alto, verso il mondo Iperuranio dove si trovano le idee.
Ritorniamo ora al guanto di Klinger. L’immagine ci mostra un guanto solitario che guida un cocchio e procede sulla riva di un mare calmo e illuminato dal sole. Fino a qui tutto bene se non fosse che quel guanto alla fine risulta molto simile ad una conchiglia che tradizionalmente nella mitologia greca generò la dea Venere allegoria dell’amore, che in questa scena lo attrae e lo soggioga allo stesso tempo. Quindi di lì a poco arriverà Freud che formulerà le sue intuizioni partendo dalla similitudine tra la descrizione dell’anima platonica rappresentata dal cavaliere con la biga e i due cavalli e la sua teoria della mente e poi Sciascia col guanto del commissario e quel brigadiere che non avrebbe apprezzato e ancora poi Klinger col suo guanto volante.
Sciascia batte Klinger che batte Freud. Partita conclusa!

 

Cinzia Cogoni

Caterina Ghisu

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